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Il termine start-up è uno dei più inflazionati e sdoganati degli ultimi anni nella lingua italiana. Non a caso anche noi lo utilizziamo nel dominio del nostro sito.
La crisi economica è stata un fattore decisivo nella diffusione del fenomeno della start-up in Italia: molti attori economici hanno dovuto fare i conti con la perdita di certezze economiche e sociali. Da ciò scaturisce la voglia di riscatto e di rimettersi in gioco sfruttando opportunamente le occasioni di fare business.
La definizione classica di start-up è “un’impresa appena nata, con limitate risorse ma potenzialmente in grado di realizzare cospicui utili nel medio/lungo termine, avente come oggetto sociale un’attività caratterizzata da un’elevata intensità tecnologica”. Facebook, Google, Apple, Amazon, appena nate, rientravano in questa definizione di start-up. Purtroppo non è un caso che nessuna di queste aziende citate non siano italiane. Un passo importante che, negli anni più recenti, è stato fatto in Italia è quello di iniziare a contemplare le start-up in iniziative nazionali e regionali di agevolazione finanziaria e fiscale. Nel nostro Paese, inoltre, si parla di start-up con un’accezione più ampia del termine. Possiamo parlare di start-up anche in contesti imprenditoriali ben lontani dall’avere il fattore tecnologico al centro del proprio modello di business.
Ciò che accomuna a livello universale tutte le start-up è l’approccio dinamico, flessibile ed analitico al mercato. Eric Ries nel suo libro “Partire Leggeri. Il metodo Lean Start-up: innovazione senza sprechi per nuovi business di successo” classifica le attività fondamentali della start-up in tre categorie:
i) trasformare le idee in prodotti
ii) misurare le reazioni della clientela in modo analitico (si arriva a parlare di contabilità dell’innovazione, seguendo un vero e proprio approccio scientifico)
iii) capire se svoltare o perseverare con nelle scelte aziendali.
Eric Ries sostiene che “Una start-up non esiste al solo scopo di fabbricare prodotti, arrecare guadagni e neppure servire la clientela. Esiste per apprendere come creare un business sostenibile. Tale apprendimento può essere convalidato scientificamente conducendo frequenti esperimenti che permettano all’imprenditore di verificare ogni elemento della sua visione”.
Andrea Di Camillo, fondatore di P101, una delle prime realtà italiane di Venture Capital, nell’intervista a L’Impresa num. 7-8/2015 afferma che il termine start-up non deve essere utilizzato come sostantivo ma come “un aggettivo di un’azienda che ne denota una fase, quella che va dalla nascita alla sua affermazione sul mercato”.
Analizzando casi di successo aziendale di grandi imprese possiamo riconoscere una perseveranza nel metodo di gestire l’attività da start-up. Ciò infatti è necessario in un mondo sempre più dinamico in cui nessuno, una volta conquistata una posizione di leadership di mercato, ha il privilegio di permettersi di non ricercare quel miglioramento continuo che è alla base dell’innovazione per la creazione di nuovi prodotti e servizi.
Riflettendo, ad esempio, a come è mutato il mercato dei telefonini negli ultimi dieci anni è possibile rendersi conto di come sia importante investire in innovazione. In questo mercato è possibile notare come la posizione di leadership di mercato sia passata di mano dalla Nokia ad altri attori come ad esempio Samsung ed Apple. Si può declinare l’evoluzione avvenuta in questo settore in altri contesti anche lontani dal mondo tecnologico: una palestra, un ristorante, un’impresa di costruzioni, una banca, agenzie immobiliari…ecc. ecc. tutte le realtà imprenditoriali devono innovare ed essere in grado di gestire i cambiamenti del mercato. Avere un approccio imprenditoriale da start-up sicuramente migliora l’adattabilità dell’organizzazione aziendale ed aumenta la probabilità di avere/mantenere una posizione di leadership.